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Forma e formalismo nell'intermediazione finanziaria: come tutelare in concreto l'investitore?

Si riporta per esteso la nota alla sentenza del Tribunale di Verona del 25.03.2017 nei confronti di Banca Popolare di Vicenza.

Tribunale di Verona – 25.3.2017


Sentenza di accoglimento RG n 13890/2015


Forma del contratto quadro di intermediazione mobiliare – Nullità per mancanza della sottoscrizione dell’intermediario – obblighi informativi sui prodotti finanziari illiquidi – azione di società non quotate


Nel caso di mancanza della sottoscrizione dell’intermediario, la forma scritta ad substantiam prevista per il contratto “quadro” di intermediazione finanziaria non può essere provata per testimoni o per presunzioni ma esclusivamente tramite prova documentale attestante l’adesione formale all’accordo.


Le azioni di società non quotate sono un prodotto illiquido, pertanto l’intermediario deve fornire le informazioni previste dalla Comunicazione Consob del 2.3.2009 n. 9019104.


Nei questionari di profilatura (MIFID), nella sezione relativa alla conoscenza dei prodotti finanziari, le azioni di società non quotate sono assimilabile ai derivati OTC e non alle azioni di società quotate.


dal testo:


Il fatto. B.S. ha convenuto in giudizio davanti al Tribunale di Verona la Banca Popolare di Vicenza (d’ora in avanti per brevità solo BPVI), assumendo che:


il 23 ottobre 2009 e il 7 ottobre 2010 aveva acquistato presso la filiale di xxx della convenuta un totale di 670 (rectius n. 660) azioni BPVI, al prezzo di € 60,50 ciascuna, dietro insistente suggerimento della banca che le aveva rappresentato quelle operazioni come investimenti della specie più sicura e dopo che era stata rassicurata sulla possibilità di liquidare i titoli in un successivo momento;


al momento delle predette operazioni non le era stato consegnato nessun documento “né il contratto per la negoziazione degli strumenti finanziari, né il contratto di apertura del dossier titoli” ed ella non aveva nemmeno sottoscritto il questionario MIFID;


il 19 settembre 2014, aveva chiesto alla Banca di poter vendere dette azioni ma quella, conlettera del 1° dicembre 2014, le aveva comunicato di essere impossibilitata a riacquistarle, asserendo che per l’utilizzo del “fondo acquisto azioni proprie” nel corso del 2014 era diventata obbligatoria l’autorizzazione dell’autorità di vigilanza;


i successivi reclami che ella aveva inviato all’istituto di credito erano rimasti sena esito, così come la sua richiesta di ottenere la documentazione contrattuale.


Sulla scorta di tale esposizione l’attrice ha avanzato in via principale domanda di declaratoria della nullità del contratto quadro sottostante alle predette operazioni e dei due ordini di acquisto, e di conseguente restituzione della somma investita, poiché lo stesso non le era stato consegnato né in originale all’atto delle operazioni né successivamente in copia.


In via subordinata al mancato accoglimento della predetta domanda la S. ha lamentato l’inadempimento della convenuta ad una serie di obblighi comportamentali, su di essa gravanti quali intermediario, ed in particolare:


la violazione dell’obbligo di agire con perizia e diligenza poiché il prezzo di acquisto dei titoli era stato non congruo e artatamente sopravvalutato;


l’inosservanza degli specifici obblighi informativi derivanti dalla illiquidità dei titoli in questione, come esplicitati anche dal comunicato della Consob n 9019104 del 2 marzo 2009, e di quello sulla situazione di conflitto di interessi in cui si era trovata la convenuta nel vendere azioni proprie e di quello del c.d. rischio bail in, che sarebbe entrato in vigore il 1 gennaio 2016;


la mancata valutazione della adeguatezza e appropriatezza delle due operazioni, avuto rigurdo agli obiettivi di investimento che essa attrice aveva avuto, in contrasto con il regolamento Consob 16190/2007;


la violazione dell’art. 49 del regolamento Consob 16190/2007 in punto di prontezza e rispetto dell’ordine temporale nella esecuzione degli ordini di vendita.


L’attrice ha quindi avanzato domanda di condanna della convenuta al risarcimento dei danni conseguenti ai prospettati inadempimenti.


La convenuta nel costituirsi in giudizio, ha eccepito in via preliminare di rito l’incompetenza per materia del Tribunale di Verona in favore del Tribunale delle imprese di Venezia e, in via preliminare di merito, la prescrizione della domanda di nullità del contratto quadro avanzata da controparte. Con riguardo al merito ha resistito alle domande avversarie con ampie argomentazioni sia in fatto che in diritto.


Ciò detto con riguardo agli assunti delle parti, è opportuno evidenziarie innanzitutto che la convenuta, in sede di precisazione delle conclusioni, non ha riproposto l’eccezione di incompetenza per materia che aveva sollevato all’atto della sua costituzione in giudizio, prestando così acquiescenza al provvedimento del 7 aprile 2016 con il quale questo giudice l’aveva disattesa.


L’infondatezza del rilievo di nullità del contratto quadro


Venendo al merito va innanzitutto affermata l’infondatezza della domanda di nullità del contratto quadro per difetto di forma scritta, così precisata, già con la memoria ai sensi dell’art. 183, VI comma, n. 1 c.p.c., l’originaria allegazione dell’attrice, a seguito della produzione del contratto in questione da parte della convenuta.


Tale conclusione non discende dalle considerazioni svolte in comparsa conclusionale dalla difesa della convenuta giacché esse valorizzano sul punto le dichiarazioni rese dal teste C., il funzionario BPVI che aveva raccolto gli ordini dell’attrice, sulla consegna alla S. della originale del contratto sottoscritto dal direttore della filiale e quindi una prova testimoniale e presuntiva che non può supplire alla mancanza del dato formale.


Nel giudizio sono invece emerse chiare evidenze documentali della adesione formale dell’istituto di credito all’accordo, costituite, da un lato dalla sottoscrizione da parte di un suo funzionario, sia pure ai fini di autentica della firma della S., della domanda di ammissione a socio della stessa, che ella aveva presentato, lo stesso giorno in cui effettuò l’acquisto della prima tranche di azioni, al fine di perfezionare l’operazione.


Inoltre la convenuta ha prodotto l’estratto del deposito titoli dell’attrice alla data del 31.12.2009, comprensivo di questionario MIFID (doc. 14 di parte convenuta), sottoscritto dal direttore di filiale, che postula l’adesione all’accordo quadro.


L’ordine di esibizione dell’originale del contratto richiesto dalla convenuta è pertanto irrilevante ai fini della decisione.


L’infondatezza o l’incongruità di alcuni dei profili di inadempimento della convenuta prospettati dalla attrice


Parimenti infondata è la doglianza attorea relativa alla omessa informazione sulla situazione di conflitto di interessi in cui operò la banca atteso che fu palese che essa avesse venduto azioni proprie.


Il medesimo assunto di infondatezza merita l’assunto attoreo secondo cui la convenuta avrebbe violato i principi generali sulla gestione degli ordini dei clienti di cui all’art. 49 del regolamento Consob 16190/2007, per la semplice considerazione che la S. non formalizzò nessun ordine di vendita dei titoli per cui è causa ma una richiesta di vendita di essi alla società emittente, della quale si dirà subito.


Ancora deve osservarsi che due dei profili di inadempimento prospettati dalla attrice non riguardano, a differenza degli altri, la banca quale esercente una attività di intermediazione finanziaria, ma quale società emittente delle azioni e sono quindi palesemente incoerenti rispetto alla complessiva prospettazione attorea che si fonda espressamente sulla violazione da parte della convenuta della disciplina in tema di intermediazione finanziaria.


Il primo attiene ai criteri con cui venne determinato il prezzo di vendita delle azioni che, come noto, ai sensi dell’art. 2528 c.c., viene stabilito dall’assemblea dei soci su proposta del consiglio di amministrazione.


Il secondo relativo alla mancata evasione della domanda di riacquisto delle azioni, rivolta dall’attrice alla convenuta in data 19 settembre 2014. Orbene, essa, come giustamente osservato dalla difesa della convenuta, integrò una proposta contrattuale rivolta dal socio all’emittente, che peraltro non era obbligata ad esaudirla, alla luce del chiaro disposto dell’art. 18 dello Statuto sociale BPVI che l’attrice era tenuta a conoscere.


Quanto poi al rilievo riguardante la mancata informativa circa “i rischi del c.d. Bail-in” esso, oltre a non fondare nessuna specifica domanda attorea, risulta del tutto inconsistente poiché la normativa che ha introdotto tale istituto è entrata in vigore solo due anni dopo la data in cui la S. avanzò la suddetta domanda.


La violazione degli obblighi informativi e di quello di valutare l’appropriatezza delle operazioni da parte della convenuta


Ad avviso di questo giudice la convenuta è stata invece sicuramente inadempiente ai molteplici obblighi informativi ai quali era tenuta in considerazione della particolare natura dei titoli che alienò alla attrice.


Innanzitutto non può dubitarsi, e, a ben vedere, non è nemmeno controverso, che le azioni in questione fossero titoli illiquidi o, per meglio dire, che presentassero un rischio liquidità poiché non erano quotati e quindi potevano essere scambiate non già in un mercato regolamentato ma tramite la stessa banca emittente o direttamente tra i suoi soci-azionisti e tale caratteristica rendeva di per sé alquanto difficoltosa la loro monetizzazione e il recupero della somma investita.


Ciò precisato, deve decisamente escludersi che, secondo quanto sostenuto dalla convenuta, le predette modalità di negoziazione delle azioni BPVI fossero state sempre note alla S. e che tale sua consapevolezza è comprovata dalla circostanza che ella indirizzo le domande di riacquisto delle azioni al Consiglio di Amministrazione di BPVI.


Infatti, a prescindere dalla considerazione che quella iniziativa fu successiva di molto al momento delle due operazioni di investimento per cui è causa, essa non può comunque ritenersi indicativa della consapevolezza da parte dell’attrice della incidenza che siffatta modalità di vendita poteva avere su tempi e costi di liquidazione dei titoli.


A bene vedere l’istituto di credito fornì all’attrice una adeguata e dettagliata informativa sulle modalità con cui avvenivano gli scambi delle azioni non quotate si BPVI solo con la raccomandata a.r. del 1 dicembre 2014 (doc. 4 di parte attrice), nella quale spiegò le ragioni per cui non aveva potuto dar corso alla sua richiesta di rivendita delle azioni.


E tale circostanza vale a smentire l’assunto della convenuta che l’attrice fosse stata al corrente di quei dettagli prima di quel momento.


Del resto del tutto insufficiente era stata l’informativa sui titoli illiquidi presente nel documento, denominato “Informativa precontrattuale per la clientela su servizi e attività di investimento”, che venne consegnato all’attrice al momento della prima operazione (la circostanza, dedotta dalla convenuta, non è stata contestata dall’attrice) e che è stato prodotto dalla convenuta (doc. 6, p. 8).


Infatti l’informazione con esso fornita (“La liquidità di uno strumento finanziario consiste nella sua attitudine ad essere prontamente convertito in denaro senza perdite di valore. In generale, a parità di altre condizioni, i titoli trattati su mercati organizzati sono più liquidi dei titoli non trattati su detti mercati”) risulta piuttosto vaga e generica perché riguarda la categoria dei titoli illiquidi mentre ciò di cui si duole l’attrice è di non essere stata informata che lo specifico titolo acquistato era ad essa riconducibile, oltre che delle conseguenze che ciò comportava.


Anche il teste C. (si tratta dell’impiegato dell’istituto di credito che raccolse i due ordini di acquisto), sentito sul punto, è stato estremamente vago poiché, dopo aver dichiarato di non ricordare il contenuto e i particolari del colloquio avuto con l’attrice ha aggiunto: “Penso che avremo sicuramente parlato delle caratteristiche delle azioni BPVI ma non ricordo nello specifico cosa lei (sott. la S.) possa aver chiesto e cosa io possa aver risposto”.


A ben vedere però nemmeno l’informativa contenuta nella lettera del 1 dicembre 2014 fu esaustiva poiché neppure con essa vennero forniti i necessari ragguagli in ordine a tutti i possibili rischi degli investimenti effettuati.


Occorre infatti rammentare come la comunicazione Consob relativa al “dovere dell’intermediario di comportarsi con correttezza e trasparenza buona fede in sede di distribuzione di prodotti illiquidi” del 2009 (documento privo di diretta portata precettiva ma esplicativo degli obblighi di legge) stabilisca numerosi e assai stringenti obblighi di trasparenza ex ante a carico dell’intermediario, nessuno dei quali è stato osservato nel caso di specie, quali:


quello di indicare la scomposizione delle diverse componenti che concorrono al complessivo esborso finanziario sostenuto dal cliente per l’assunzione della posizione nel prodotto illiquido;


quello di indicare il valore di smobilizzo dell’investimento nell’istante immediatamente successivo alla transazione, ipotizzando una situazione di invarianza delle condizioni di mercato;


quello di inserire nel corredo di informazioni da dare al cliente il confronto con prodotti semplici, noti, liquidi, a basso rischio di analoga durata;


quello di informare sulle modalità di smobilizzo delle posizioni sul singolo prodotto, ovvero in merito alle eventuali difficoltà di liquidazione connesse al funzionamento dei mercati di scambio e dei conseguenti effetti in termini di costi e tempi di esecuzione della liquidazione.


Tali indicazioni rilevano anche nel caso di specie.


Va infatti decisamente disatteso l’assunto di parte convenuta secondo cui, all’epoca dell’adozione della predetta comunicazione, era dubbia la riconducibilità delle azioni al novero dei prodotti illiquidi.


Il succitato documento infatti qualifica come prodotti illiquidi “quelli che determinano per l’investitore ostacoli o limitazioni allo smobilizzo entro un lasso di termine ragionevole, a condizioni di prezzo significative, ossia tali da riflettere, direttamente o indirettamente, una pluralità di interessi in acquisto e in vendita” e, subito dopo aggiunge che: “la condizione di liquidità, presunta ma non assicurata di diritto dalla quotazione del titolo in mercati regolamentati, potrebbe essere garantita anche dall’impegno dello stesso intermediario al riacquisto secondo criteri e meccanismi prefissati e coerenti con quelli che hanno condotto al pricing del prodotto nel mercato primario”.


Ancora, la comunicazione Consob, come evidenziato dalla convenuta, elenca come esempi di titoli illiquidi, le obbligazioni bancarie, le polizze assicurative a contenuto finanziario e i derivati OTC, ma al tempo stesso, precisa che tale elencazione non ha carattere esaustivo e quindi in essa possono includersi a pieno titolo anche le azioni di società bancarie non quotate, che con quei titoli condividono le caratteristiche prima richiamate.


La convenuta sul punto ha anche sostenuto che le azioni BPVI al momento degli acquisti per cui è causa, non presentavano “forti caratteristiche di illiquidità”, dal momento che esisteva “un vivace mercato (pur non regolamentato) di scambio delle stesse, che avveniva in tempi rapidi direttamente tra i soci della banca e/o con la banca” e che la loro “sostanziale illiquidità” fu determinata dal mutamento del quadro normativo che ha introdotto limiti più stringenti alla possibilità di acquisto di azioni proprie.


L’assunto però è in primo luogo contraddittorio, poiché postula che al momento dell’effetuazione delle due operazioni di investimento le azioni non fossero illiquide e quindi che la convenuta non avesse avuto obblighi informativi di sorta al riguardo.


Esso è poi anche irrilevante.


La forma di contrattazione descritta dalla convenuta infatti non poteva rendere liquidi, nei termini sopra indicati, i titoli che ne costituivano oggetto poiché si fondava su un meccanismo, forse anche consolidato, ma che era rimasto non regolamentato, specie con riguardo alle condizioni di vendita, ed in primis alle modalità di determinazione del prezzo di vendita delle azioni.


Stando ad essa la possibilità di rivendere queste ultime dipendeva comunque dalla individuazione di un soggetto che fosse disposto ad acquistarle, atteso che non vi erano obblighi di acquisto a carico di chicchessia, tantomeno, come già detto, a carico della società emittente.


Vi erano quindi quelle intrinseche limitazioni fattuali agli scambi, che costituiscono, in alternativa alla loro impossibilità giuridica, elemento caratterizzante dei titoli illiquidi.


Di conseguenza non vi era nessuna certezza sul prezzo di realizzo che si sarebbe potuto ottenere e che quindi rimaneva teorico, per non dire del tutto aleatorio.


Anche di tutto ciò l’attrice avrebbe dovuto essere avvertita, prima della conclusione delle due operazioni per cui è causa, per essere messa in condizioni di effettuare un acquisto perfettamente consapevole.


Alla luce di tali considerazioni è evidente, poi, come, ad esimere la convenuta dall’assolvimento dei diffusi obblighi informativi fin qui richiamati, non possa valere la circostanza, dalla stessa ricordata, che il genero della attrice potesse averla consigliata poiché si trattava di un soggetto privo della competenza specifica in strumenti finanziari.


Parimenti è a dirsi della circostanza che egli aveva già effettuato in precedenza analoghe operazioni di investimento, beneficiando delle modalità di transazione sopra delineate, come da lui confermato in sede di escussione testimoniale.


A ben vedere infatti l’esperienza personale del G., senza la spiegazione, che necessariamente avrebbe dovuto provenire dall’istituto di credito, della radicale differenza tra il tipo di mercato in cui egli aveva operato ed un mercato regolamentato era stata addirittura fuorviante per la S..


Dopo quanto detto sulle peculiari caratteristiche delle azioni BPVI, se può convenirsi con la difesa della convenuta che non trova applicazione nel caso di specie la disciplina in punto di adeguatezza delle operazioni di investimento, può però affermarsi anche che BPVI è venuta meno all’obbligo di valutarne l’appropriatezza, derivante dall’art. 42 Reg. 16190 del 2007 e da osservarsi anche nel servizio di mera esecuzione o ricezione di ordini che non sia conforme a tutte le condizioni di cui al successivo art. 43, prima tra tutte quella che gli strumenti trattati siano azioni quotate.


BPVI sul punto non ha contestato di essere soggetta alla succitata disciplina ma ha sostenuto che la S. aveva il livello di esperienza e conoscenza necessario per comprendere i rischi propri dello strumento finanziario acquistato, dal momento che in precedenza aveva già effetuato altri investimenti azionari (così pag. 11 della comparsa di costituzione e risposta).


In realtà l’unico investimento che l’attrice risulta aver effettuato prima di quelli per cui è causa è consistito nell’acquisto di alcune quote di un fondo Arca, denominato BT tesoreria, sottoscritto in data 4 giugno 2008, come ricordato dalla stessa convenuta in comparsa conclusionale e secondo quanto è possibile desumere dall’estratto di conto corrente prodotto sub doc. 20 da BPVI.


Il fondo in questione però investe in obbligazioni governative a breve termine e quindi non è per nulla assimilabile ad una azione illiquida sia perché viene trattato in un mercato regolamentato sia perché offre la garanzia di restituzione del capitale investito.


A prescindere dalla inconsistenza della difesa della convenuta sul punto, è stato però acclarato che essa non effettuò la valutazione di appropriatezza degli investimenti per cui è causa e che, come precisato anche nella informativa precontrattuale sopra richiamata, implica l’acquisizione da parte dell’intermediario di informazioni in merito alle conoscenze ed esperienze del cliente in materia di investimenti “nello specifico prodotto o servizio richiesto”.


Il teste C. infatti, oltre a dichiarare di aver conosciuto la S. per la prima volta in occasione delle operazioni per cui è causa, non ha saputo riferire nulla in proposito.


Dal testo del questionario Mifid che la convenuta ha prodotto (doc. 15-17) risulta invece che la S. aveva dichiarato di conoscere le azioni (termine che evidentemente si riferisce alle azioni di società quotate) e di non conoscere tutta una serie di altri prodotti finanziari, tra i quali i derivati Otc.


Orbene, le azioni illiquide, come quelle per cui è causa, sono più assimilabili a questi ultimi, con riguardo al tipo di mercato in cui vengono trattate e alle conseguenze, anche in termini di rischiosità dell’investimento, che ciò comporta, piuttosto che alle azioni quotate.


Risulta quindi provato che non vi fu una verifica da parte dell’intermediario della capacità del cliente di comprendere gli specifici profili di rischio connessi ai titoli acquistati, che era suggerita anche dalla citata comunicazione Consob del 2 marzo 2009 proprio in punto di valutazione di appropriatezza.


La domanda risarcitoria dell’attrice


Passando ad esaminare la domanda risarcitoria della attrice va innanzitutto rilevata l’inammissibilità, prima ancora che l’infondatezza, dell’eccezione di prescrizione del corrispondente diritto che è stata sollevata dalla convenuta per la prima volta solo in comparsa conclusionale. Findo ad allora infatti BPVI aveva svolto identica eccezione solo rispetto alla domanda di nullità del contratto quadro avanzata dalla S.


La domanda attorea è invece fondata.


Infatti contrariamente a quanto sostenuto dalla convenuta, è innanzitutto pienamente ravvisabile una diretta incidenza causale delle condotte inadempienti dell’istituto di credito, sopra descritte, sulle operazioni di investimento per cui è causa.


Per quanto riguarda la valutazione di appropriatezza, se fosse stata effettuata avrebbe comportato, secondo quanto previsto dalla informativa precontrattuale di BPVI (doc. 6, pag. 6 pf. 7), una specifica avvertenza alla S. che, con elevata probabilità. L’avrebbe dissuasa dal procedere all’acquisto, tenuto conto dell’obiettivo di investimento che ella si era prefissata e che esplicitato già in atto di citazione, senza che la convenuta contestasse la sua allegazione.


L’attrice ha infatti affermato in quell’atto che intendeva recuperare il capitale investito entro un limitato arco temporale, per fornire alla figlia la provvista necessaria all’acquisto di un immobile (cfr. pagg. 1 e 2 del succitato atto) e, più avanti (pag. 11), ha ribadito che mirava ad un investimento sicuro con capitale garantito.


Si noti poi che siffatto obiettivo era pienamente coerente con la sua pregressa operatività, come attestata dal già evidenziato acquisto di quote di un fondo Arca di carattere obbligazionario governativo.


Alla luce di tali emergenze poi si può anche ragionevolmente escludere che, se l’attrice fosse stata adeguatamente informata delle caratteristiche del titolo individuato, lo avrebbe acquistato.


La convenuta ha anche sostenuto che non vi è prova del nesso causale tra l’inadempimento degli obblighi informativi e di appropriatezza e il danno lamentato dalla S. e consistito nella svalutazione del valore delle azioni per cui è causa.


Tale pregiudizio, secondo l’istituto di credito, sarebbe stato la conseguenza di due serie causali del tutto autonome rispetto alle condotte da lei tenute: da un lato la svalutazione del titolo BPVI, provocata a sua volta dall’andamento generale del mercato bancario e dalla congiuntura sfavorevole, e dall’altro quella che sarebbe stata una precisa strategia d’investimento della attrice che aveva attentamente pianificato le due operazioni e poi aveva deciso di non alienarle, trattenendole in portafoglio.


Nessuno dei due assunti merita di essere condiviso.


Il primo è infatti fuorviante perché la svalutazione del prezzo del titolo BPVI, che a ben vedere, come appurato dalla Banca d’Italia era stato determinato con criteri non obiettivi (cfr. nota Banca d’Italia del 27 ottobre 2015 prodotta sub 29 dalla attrice), è conseguenza delle vicende occorse alla società e non dell’andamento del mercato, e l’attrice non sarebbe stata esposta ad esse se non avesse acquistato i titoli nonché se, come subito si dirà, in un secondo momento non fosse stata convinta a conservarli nel suo portafoglio. E, come detto, le due operazioni furono sicuramente favorite, sotto il profilo causale, dalle già evidenziate omissioni della convenuta.


Peraltro il raffronto con l’andamento del valore delle azioni di altre società non quotate non è nemmeno pertinente poiché, come detto, in alternativa alle azioni per cui è causa la attrice non avrebbe acquistato altre azioni di quel tipo, e nemmeno azioni di società quotate ma titoli obbligazionari anche a reddito fisso.


Quanto alla seconda serie causale citata dalla convenuta si è già visto che la scelta di acquistare i titoli BPVI fu compiuta dalla S. senza avere contezza dei profili di rischio connessi che essa comportava. Quanto al successivo suo atteggiamento la convenuta ha inteso riferirsi alla decisione assunta dalla attrice nell’ottobre del 2013 di conservare le azioni, dopo che in un primo momento si era rivolta nuovamente al C. per rivenderle. Orbene, quel ripensamento fu determinato, secondo quanto riferito dal teste Co., in primo luogo proprio dal funzionario di BPVI che aveva rappresentato alla attrice che, se avesse conservato i titoli, avrebbe potuto continuare a percepire i relativi dividendi. Il Co. Intervenne solo per confermare quel suggerimento.


La scelta dell’attrice fu quindi determinata in modo decisivo, anche in quella occasione, dal grado di affidamento che ella riponeva nell’intermediario, in virtù del rapporto contrattuale con lui, e che non può essere sostituito da fattori esterni (Cass. 29864/2011).


Peraltro non va sottaciuto come in quel frangente indirettamente alla attrice venne anche data una informazione errata o comunque fuorviante, ovvero che la restituzione del capitale investito era assicurata.


Ciò detto il danno patito dall’attrice va quantificato nella intera somma corrisposta per l’acquisto dei due pacchetti di azioni (euro 40.126,00), atteso che essi non sono negoziabile, nemmeno con le modalità una volta praticate, o acquistabili dalla società emittente e sono quindi di fatto privi di valore.


Dal suddetto importo va detratto quello dei dividendi percepiti in denaro e ammontanti, secondo la allegazione di parte convenuta non contestata dalla attrice, a complessivi euro 487,95, ma non quelli riconosciuti in natura mediante ulteriori azioni emesse a favore della S. perché anche esse sono ormai prive di qualsiasi valore per le ragioni appena dette.


Sulla somma complessiva così risultante di euro 39.638,05, spettano, a decorrere dalla data dei due pagamenti e sugli importi degli stessi gli interessi al tasso legale, richiesti già in atto di citazione, e anche la rivalutazione monetaria, richiesta espressamente solo in sede di precisazione delle conclusioni. Sul punto deve infatti rammentarsi che, secondo il consolidato insegnamento della Suprema Corte, “La rivalutazione monetaria e gli interessi costituiscono una componente dell’obbligazione di risarcimento del danno e possono essere riconosciuti dal giudice anche d’ufficio e in grado d’appello, pur se non specificamente richiesti, atteso che essi devono ritenersi compresi nell’originario petitum della domanda risarcitoria, ove non ne siano stati espressamente esclusi” (Cassazione civile, sez. III, 29/04/2015, n. 8705).


Più precisamente, trattandosi di crediti di valore, gli interessi vanno computati sulla somma devalutata al momento dei pagamenti e quindi via via rivalutata fino a quella di pubblicazione della presente sentenza. Sulla somma complessiva così risultante spetta poi la rivalutazione fino al momento del saldo effettivo.


Venendo alla regolamentazione delle spese processuali va anche evidenziato che, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa della convenuta, questa non ha mai manifestato una reale disponibilità a raggiungere una soluzione stragiudiziale della controversia. Essa infatti, a differenza dell’attrice, ha rifiutato la proposta conciliativa del 7 aprile 2016, adducendo a giustificazione di tale suo atteggiamento la necessità di conformarsi ai termini della offerta transattiva rivolta alla generalità dei soci-investitori.


Quest’ultima iniziativa non costituiva però un ostacolo alla conclusione di un accordo conciliativo con l’attrice poiché le sue finalità avrebbero potuto essere comunque garantite con l’inserimento in quello di una clausola di riservatezza.


Alla liquidazione delle somme spettanti a titolo di compenso si procede come in dispositivo sulla base del d.m. 55/2014.


In particolare il compenso per le quattro fasi in cui si è articolato il giudizio può essere determinato assumendo a riferimento i corrispondenti valori medi di liquidazione previsti dal succitato regolamento.


Sull’importo riconosciuto a titolo a titolo di compenso alla attrice spetta anche il rimborso delle spese generali, nella misura massima consentita del 15% della somma sopra indicata, e della somma versata a titolo di contributo unificato.


P.Q.M.


Il Giudice unico del Tribunale di Verona, definitivamente pronunciando ogni diversa ragiona ed eccezione disattesa e respinta, rigetta la domanda di declaratoria di nullità del contratto quadro e degli atti conseguenti avanzata dall’attrice;


in accoglimento della domanda risarcitoria avanzata dalla attrice condanna la convenuta a corrispondere alla prima la somma di euro 39.638,05, oltre agli interessi legali e alla rivalutazione sulle somme di euro 30.051,25 e su quella di euro 9.586,80, dalle date rispettivamente, del 23 ottobre 2009 e del 7 ottobre 2010 a quella di pubblicazione della presente sentenza, oltre agli interessi sulle somme predette dalla data di pubblicazione della presente sentenza a quella del saldo effettivo;


condanna altresì la convenuta a rifondere all’attrice le spese del presente giudizio che liquida nella somma di euro 7.254,00, oltre rimborso spese generali nella misura del 15% del compenso, Iva e Cpa ed euro 777,00 a titolo di contributo unificato.



[Vaccari G. Un.]



Nota di commento: «Forma e formalismo nell’intermediazione finanziaria: come tutelare in concreto l’investitore?»



I. Il caso


L’attore agisce contro una banca popolare assumendo di aver acquistato 660 azioni della stessa nel corso del 2009 dietro suggerimento dell’impiegato che gli rappresentava detto strumento finanziario come sicuro e facilmente liquidabile. Al momento dell’acquisto non era stato consegnato alcun documento.


L’attore avanzava, in via principale, domanda di declaratoria di nullità del contratto quadro sottostante e degli ordini di acquisto con conseguente restituzione di quanto investito.


In via subordinata lamentava l’inadempimento dell’obbligo di agire con perizia e diligenza poiché il prezzo delle azioni era artatamente sopravvalutato, l’inosservanza degli obblighi informativi circa l’illiquidità dei titoli, la mancata valutazione dell’adeguatezza e dell’appropriatezza degli ordini di acquisto, la violazione dell’art. 49 reg. Consob 16190/2007 in quanto la banca non avrebbe rispettato l’ordine temporale nella esecuzione degli ordini di vendita.


La convenuta nel costituirsi produceva il contratto quadro privo della sottoscrizione della Banca stessa e contestava l’applicabilità al caso di specie della disciplina sull’adeguatezza e sull’appropriatezza di cui al Regolamento Consob 16190/2007 e l’applicabilità della Comunicazione Consob n. 9019104 del 2 marzo 2009 in tema di strumenti finanziari illiquidi.


Il caso permette la disamina della problematica relativa alla forma del contratto quadro di intermediazione finanziaria e del tema degli obblighi informativi sugli strumenti finanziari illiquidi.



II. Le questioni



1. La forma del contratto quadro di intermediazione finanziaria. La prima questione affrontata dal Tribunale di Verona concerne la declaratoria di nullità del contratto quadro per difetto di forma scritta. La Banca convenuta aveva prodotto copia “per la banca” del contratto di negoziazione titoli recante la sola firma dell’attore. Nel corso del processo, un teste, funzionario della banca, aveva dichiarato di aver consegnato l’originale del contratto sottoscritto dal direttore. Correttamente il giudice veronese ritiene inammissibile che una prova testimoniale e presuntiva possa supplire la mancanza di un contratto la cui forma sia prevista ad substantiam dalla legge. Ritiene però che costituiscano evidenze documentali tali da provare l’adesione della banca all’accordo, la sottoscrizione (sia pure a fini di autentica) da parte dell’istituto di credito della domanda di ammissione a socio e un questionario MIFID recante la firma del direttore della filiale. Entrambi questi documenti, sottoscritti dalla banca, postulerebbero l’esistenza del contratto quadro.


Nella prassi bancaria infatti la conclusione del contratto di intermediazione finanziaria avviene con lo scambio di due esemplari del medesimo contratto ciascuno sottoscritto dall’altra parte. Per cui la banca possiede una “copia per la banca” del contratto con la sola sottoscrizione del cliente e il cliente possiede, o dovrebbe possedere, una “copia per il cliente” con la sola sottoscrizione dell’intermediario.


Molti investitori a seguito di ingenti svalutazioni dei titoli sottoscritti hanno intentato causa contro gli intermediari lamentando, tra l’altro, la violazione delle prescrizioni in tema di forma a causa della mancata presenza della sottoscrizione dell’intermediario sulla “copia per la banca” del contratto e, ovviamente, non producendo in giudizio la “copia per il cliente” dichiarando di non averla mai ricevuta.


In dottrina e nella giurisprudenza di merito si sono registrati numerosi contrasti, mentre nella giurisprudenza di legittimità pareva esserci una netta prevalenza dell’impostazione che reputa nullo il contratto privo della firma dell’intermediario.


L’art. 23 recita che «i contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento […] sono redatti per iscritto e un esemplare è consegnato ai clienti […] Nei casi di inosservanza della forma prescritta, il contratto è nullo […] La nullità può essere fatta valere solo dal cliente.»


Un primo orientamento, maggioritario nella giurisprudenza di legittimità, ritiene che per il rispetto dell’art. 23 del TUF sia necessaria la manifestazione scritta di volontà proveniente da entrambe le parti. La sottoscrizione del contratto solo da parte dell’investitore costituisce una mera proposta contrattuale, che in assenza di accettazione scritta, non è idonea a perfezionare il contratto.


Un secondo orientamento ritiene che il risultato concreto che l’art. 23 TUF intende perseguire, ossia garantire all’investitore una corretta informativa, risulti pienamente raggiunto indipendentemente dalle modalità di manifestazione del consenso da parte della banca.


Un terzo orientamento opta per la validità del contratto quadro anche qualora manchi agli atti la sottoscrizione della banca, purché sussista una prova scritta che faccia ritenere che il consenso della banca fosse stato esplicitato per iscritto, oppure sussista una forma di manifestazione del consenso dell’intermediario che equivalga alla sottoscrizione mancante (come la produzione in giudizio del contratto) (Lorenzi, infra sez. IV).


Di agile soluzione risulta la problematica circa l’effetto della produzione in giudizio da parte della Banca del contratto-quadro da essa non sottoscritto. Infatti se è vero che la mancata sottoscrizione di una scrittura privata è supplita dalla produzione in giudizio del documento stesso da parte del non firmatario che intenda avvalersene, è pur vero che ciò comporterebbe il perfezionamento ex nunc del contratto quadro (dal momento della produzione) e quindi non avrebbe alcuna utilità ai fini della validità degli ordini di acquisto precedentemente impartiti. Inoltre, parte della dottrina, ha rilevato che pur volendo considerare la produzione in giudizio del contratto alla stregua di una accettazione, e quindi la copia sottoscritta dal solo cliente come una proposta, confliggerebbe al perfezionarsi del contratto la disciplina di cui all’art. 1326, comma 2, c.c. che prevede l’esistenza di un termine entro cui la dichiarazione dell’accettante deve pervenire al proponente (Bertolini, infra sez. IV). Perché questo “rimedio” possa operare, si ritiene poi necessario che entrambe le parti desiderino mantenere fermo il contratto, il che è incompatibile con la richiesta di declaratoria di nullità formulata dall’attore.


Il giudice della sentenza in commento sembra aderire al terzo orientamento. Pur ritenendo, correttamente, inidonee le prove testimoniali e presuntive circa la consegna all’attore dell’originale del contratto sottoscritto dal direttore della filiale, a supplire alla mancanza della firma sul contratto quadro, ritiene non di meno adeguate a tale scopo ulteriori e diverse evidenze documentali. In particolare il giudice ha ritenuto che la sottoscrizione da parte di un funzionario della banca, sia pure a fini di autentica della firma del cliente, della domanda di ammissione a socio e un questionario MIFID firmato dal direttore della filiale, postulino l’adesione formale della banca al contratto quadro. A ben vedere l’attribuire rilievo alla volontà della banca, pur espressa in forma scritta, desumibile dal questionario MIFID o dalla firma posta sulla domanda di ammissione a socio, equivale ad avvalersi del criterio ermeneutico che fa discendere la prova del contratto dall’esecuzione del medesimo. È però opinione maggioritaria che i contratti soggetti alla forma scritta ad substantiam non ammettano la valorizzazione di documenti che evidenzino una formazione del consenso al di fuori dello scritto medesimo (Cass. 07.06.2011, n. 12297, infra sez. III). Tra l’altro la domanda di ammissione a socio costituisce un atto unilaterale proveniente dal cliente e pertanto non provante alcun consenso della Banca. Inoltre la giurisprudenza di legittimità ha, sin da epoca remota, affermato che il documento ha valore, per i fini del soddisfacimento del requisito formale, «in quanto sia estrinsecazione diretta della volontà contrattuale» (Cass. 07.06.1966, n. 1495, infra sez. III). Quindi, quando la forma scritta è elemento costitutivo del contratto, il documento deve consistere nella estrinsecazione formale e diretta delle volontà delle parti di concludere un determinato contratto avente una data causa, un dato oggetto e determinate pattuizioni, sicché occorre che il documento sia stato creato al fine specifico di manifestare per iscritto la volontà delle parti diretta alla conclusione del contratto. (Cass. 27.04.2016, n. 8395, infra sez. III).


Anche la dottrina non ha mancato di sottolineare le differenze circa l’adempimento del requisito della forma scritta a seconda che la stessa sia richiesta per la validità oppure per la prova del contratto. Vale anzitutto precisare che la forma scritta non postula l’unicità del documento contrattuale: proposta e accettazione possono risultare da uno scambio di documenti. È tuttavia indispensabile che risulti per iscritto la volontà contrattuale delle parti, non è invece sufficiente una scrittura che abbia natura di dichiarazione di scienza (meramente ricognitiva di una precedente contratto stipulato). Infatti tale scrittura seppur idonea a provare l’esistenza di un contratto non ne prova la forma scritta. (Galgano, infra sez. IV). Inoltre per iscritto deve risultare l’intero contenuto contrattuale senza richiami ad accordi non conclusi per iscritto e senza possibilità di distinguere tra clausole essenziali e clausole non essenziali.


Altro discorso vale per la forma scritta ad probationem in cui lo scritto è forma della prova e non forma dell’atto (Sacco; Patti; infra sez. IV).


Non sembra condivisibile l’impostazione adottata dal Giudice tesa a valorizzare atti successivi che dovrebbero essere espressivi della volontà dell’intermediario di voler aderire alla proposta contrattuale, da un lato perché quegli specifici atti non implicano una volontà di accettazione ma semmai implicano l’esecuzione del contratto, e dall’altro lato perché non riproducono il contenuto contrattuale.


Più seducente seppur non convincente appare invece la tesi che guarda alla funzione della nullità. Tale orientamento trova la sua espressione più compiuta in una recentissima ordinanza di remissione alle Sezioni Unite della Cassazione, in cui si legge «Se la forma ad substantiam, nella sua solennità propria degli scambi immobiliari tipici dell’economia fondiaria, funge, nell’ambito dei rapporti paritari, da criterio d’imputazione della dichiarazione, oltre che servire a favorire - a tutela di entrambi i contraenti - i beni della chiarezza nei contenuti, della ponderazione per l’impegno assunto e della serietà dell’accordo, nonché a distinguere le mere trattative dall’atto definitivo, occorre poi pur riflettere sul fatto che, invece, laddove le parti non si trovino su di un piano di parità perché si ravvisa una “parte debole” del rapporto, a scongiurare il rischio dell’insufficiente riflessione o dell’approfittamento ad opera dell’altro contraente interviene, allora, la forma, o formalità “di protezione”: il cui fine precipuo è proprio quello di proteggere lo specifico interesse del contraente “debole” a comprendere ed essere puntualmente e compiutamente informato su tutti gli aspetti della vicenda contrattuale.» (Cass. ord. 10.04.2017, n. 10447 infra sez. III).


Il formalismo negoziale (o neoformalismo) a cui si assiste negli ultimi tempi con precipuo riferimento ai contratti caratterizzati da asimmetrie informative sarebbe finalizzato alla tutela della parte “debole”. Pertanto la nullità che deriva dalla violazione dei precetti sulla forma persegue finalità eminentemente protettive. Si parla dunque di “nullità di funzione” anziché di “nullità di struttura”.


La conseguenza di tale impostazione porta alla considerazione che se la nullità è funzionale alla tutela del diritto dell’investitore di avere le informazioni necessarie, tanto che lui è l’unico soggetto legittimato a farla valere, tale esigenza risulterebbe soddisfatta dalla sola firma del cliente.


La sottoscrizione della Banca, che predispone unilateralmente il contratto, non avrebbe invece alcuna funzione, anzi si porrebbe in contrasto con il dinamismo nella conclusione dei contratti finanziari.


Tale è l’impostazione che anche parte della giurisprudenza di merito ha seguito, rectius, ha preceduto.


L’impostazione opposta e maggioritaria - che richiede la firma dell’intermediario ai fini della validità del contratto - risulta invece sostenuta da numerose e recenti pronunce della Corte di Cassazione (Cass. 14.03.2017, n. 6559 Cass. 24.03.2016, n. 5919; Cass. 11.04.2016, n. 7068; Cass. 27.04.2016, n. 8395; Cass. 27.04.2016, n. 8396; Cass. 19.05.2016, n. 10331; Cass. 03.01.2017, n. 36, infra sez. III) e di numerosa giurisprudenza di merito.


Questa giurisprudenza, pur riconoscendo che nella materia finanziaria l’onere della necessaria forma scritta dei contratti sia imposta a fini protettivi, ritiene nondimeno necessaria la sottoscrizione da parte della banca. Il che non è incompatibile con la formazione del contratto attraverso lo scambio di due documenti, entrambi del medesimo tenore, ciascuno sottoscritto dall’altro contraente, a condizione che entrambe le dichiarazioni negoziali siano formalizzate.


La questione non può tuttavia essere risolta se non identificando con chiarezza quali siano le esigenze tutelate dall’art. 23 del TUF, se esse siano esclusivamente quelle della tutela della parte debole, oppure si possano scorgere anche ragioni di tutela superindividuali. Il che porta necessariamente all’annoso dibattito sulla differenza tra nullità di protezione e annullabilità.


Quanto al primo aspetto si deve rilevare che le Sezioni Unite, con la storica sentenza del 19 dicembre 2007, n. 26725, hanno affermato che le norme in materia di intermediazione finanziaria sono volte alla protezione non solo dell’interesse del singolo contraente, ma anche dell’interesse generale all’integrità dei mercati finanziari. Inoltre la tutela garantita alle parti deboli nei rapporti asimmetrici non può che risultare anche funzionale al perseguimento di interessi superindividuali e dell’intera collettività tali da coincidere con valori costituzionalmente rilevanti, quali il corretto funzionamento del mercato, la tutela del risparmio, l’uguaglianza, quantomeno formale, tra contraenti in posizioni di diversa forza.


Ed è in questa constatazione che sta la differenza tra l’annullabilità che per definizione tutela l’interesse di una sola parte (quella che subisce il dolo, cade in errore o è vittima di violenza) e le nullità di protezione. Infatti l’accostamento tra un istituto e l’altro, dovuto alla coincidenza dei soggetti legittimati a fare valere l’invalidità, non coglie nel segno. Ciò che differisce è l’interesse sostanziale protetto dalla norma. Come sostenuto dalle Sez. Un. 26242/2014, le nullità di protezione assurgono ad una forma di invalidità «ad assetto variabile, e di tipo funzionale, in quanto calibrata sull’assetto di interessi concreto, ma non per questo meno tesa alla tutela di interessi fondamentali, che trascendono quelli del singolo».


Tali nullità sono quindi poste nell’interesse individuale e per la protezione del contraente la cui scelta sia ad alto rischio di irrazionalità, ma anche e soprattutto nell’interesse generale per l’efficienza del mercato. Ciò realizza nell’immediato l’interesse privato. Ma mediatamente realizza l’interesse generale. Tali nullità sono anche di protezione, ma non solo di protezione. Esse rivelano la propria anfibologia cumulando in sé tanto la tutela della scelta individuale della parte c.d. debole del rapporto (finalità protettiva), quanto un ordine del mercato imposto tramite norme imperative (finalità repressiva). Non c’è dubbio che in tutte queste ipotesi la legge anzitutto protegge qualcuno. E così l’invalidità è comminata e congegnata per difendere un ruolo giuridico. Quel che è cambiato è se mai la misura della protezione. O, inversamente, la misura del rischio lasciato sulle spalle del privato. (Gentili, infra sez. IV)


In conclusione si deve ritenere che le nullità di protezione comportino per il soggetto “debole” una facoltà in più rispetto alle nullità tradizionali, ovvero quella di decidere, a seconda del proprio interesse, se far valere o meno la nullità (Corte Giust. UE 4.06.2009, causa C-243/08). L’ordinanza invece sembra voler sottrarre questo genere di nullità alla disciplina della nullità, sottraendo di fatto tutela all’investitore/consumatore.


Si aggiunga che il giudice non può ritenere che un requisito formale, previsto a pena di nullità, possa essere ignorato nel caso in cui, a suo dire, si sia raggiunto lo scopo della norma. Infatti così ragionando si dovrebbe pur sostenere il contrario, cioè che se lo scopo della norma non è soddisfatto non si potrà ritenere la banca immune da contestazioni solo perché abbia rispettato forme e formalismi. Si pensi a tutti gli obblighi informativi e alle valutazioni di adeguatezza o di appropriatezza fatte sottoscrivere a brevissima distanza temporale l’una dall’altra e recanti in fondo la dichiarazione standardizzata in cui il cliente prende atto degli avvertimenti della banca e cionondimeno ordina l’esecuzione dell’ordine di acquisto dello strumento finanziario inadeguato o inappropriato.


In ultima analisi se la soluzione delle Sezioni Unite dovesse guardare esclusivamente al raggiungimento dello scopo per il quale è stata imposta la forma scritta, questo andrebbe verificato in concreto, cioè si dovrebbe verificare che il cliente abbia davvero compreso le condizioni contrattuali. Altrimenti si correrebbe il rischio di ritenere la firma della banca un’inutile formalità sanabile con altre formalità, nella maggior parte dei casi altrettanto inutili.



2. Gli obblighi informativi sugli strumenti finanziari illiquidi. La seconda questione di estremo interesse affrontata dal Tribunale di Verona riguarda un argomento tanto battuto in dottrina, quanto sconosciuto in giurisprudenza: gli obblighi informativi circa gli strumenti finanziari illiquidi, con particolare riferimento alla Comunicazione Consob 9019104 del 2 marzo 2009.


Prima di addentrarsi nell’analisi di tale problematica, appare utile procedere ad una ricognizione del quadro “normativo”, di matrice squisitamente europea, che ha portato alla suddetta Comunicazione della Consob anche al fine di comprenderne la portata e la vincolatività per gli intermediari finanziari. Questo documento si pone nel solco di quella regolamentazione europea volta all’armonizzazione del diritto dei mercati finanziari nota come rapporto Lamfalussy, dal nome del barone Alexandre Lamfalussy che presiedeva il Committee of Wise Men on the Regulation of European Securities Markets. A seguito del rapporto di questo comitato, il 5 febbraio 2002 il Parlamento Europeo ha approvato l’adozione di un approccio regolamentare in materia di «securities regulation», basato su una più stretta cooperazione tra gli organi dell’Unione e sul ruolo di due comitati creati dalla Commissione Europea: l’European Securities Committee (ESC) e il Committee of European Securities Regulators (CESR). Tale procedura si pone il fine di stimolare l’adozione di provvedimenti normativi in materia e di armonizzare il diritto europeo dei mercati finanziari, attraverso un procedimento regolamentare a quattro livelli.


Il primo livello consiste nell’emanazione di atti di legislazione primaria, direttive e regolamenti che devono essere proposti dalla Commissione a seguito di una consultazione con le parti interessate, e adottati da Parlamento e Consiglio, tali provvedimenti devono contenere i principi quadro e gli elementi essenziali della materia da disciplinare.


Il secondo livello impone il ricorso alla modalità decisionale della comitologia prevedendo che l’European Securities Committee (ESC) partecipi alla stesura dei provvedimenti attuativi necessari per implementare le linee generali contenute negli atti di primo livello. Tale soluzione è finalizzata a consentire una maggiore flessibilità della normativa secondaria che potrebbe più facilmente stare al passo con la rapida evoluzione dei mercati finanziari.


Poiché la emanazione di una normativa europea condivisa dagli operatori del mercato e dai governi nazionali non costituiva elemento sufficiente al fine di ottenere l’auspicato obiettivo della armonizzazione in materia di mercati finanziari, si è ritenuto opportuno predisporre due meccanismi di controllo rispetto al recepimento della normativa europea da parte degli Stati nazionali, l’uno preventivo e l’altro successivo: il controllo preventivo consiste nel ruolo di coordinamento affidato al CESR nell’ambito del Livello 3 della procedura; il controllo successivo, invece, spetta alla Commissione nell’ambito del Livello 4.


L’armonizzazione effettiva è infatti realizzata solo nel momento in cui in tutti gli ordinamenti nazionali viene fornita la medesima interpretazione della normativa europea e ne viene data uniforme esecuzione. Il terzo livello è quindi finalizzato alla uniforme e tempestiva attuazione della normativa contenuta nei primi due livelli ad opera delle Autorità di Vigilanza dei singoli stati coadiuvate dal CESR. (Moloney; Mogg, infra, sez. IV).


La Comunicazione Consob n. 9019104 del 2 marzo 2009 titolata «Il dovere dell'intermediario di comportarsi con correttezza e trasparenza in sede di distribuzione di prodotti finanziari illiquidi» costituisce una regolamentazione di Livello 3.


Non consta alcuna sentenza nel panorama giurisprudenziale successivo al 2009 che abbia fatto diretta applicazione della Comunicazione de qua, mentre l’OMBUDSMAN - Giurì Bancario ha fatto uso in diverse occasioni di tale regolamentazione. Per il vero il Giurì non si è mai preoccupato di valutare la cogenza della suddetta regolamentazione, dando per assodata l’obbligatorietà della stessa e sanzionando gli intermediari nel caso di mancato adempimento dei numerosi obblighi informativi previsti circa il collocamento e la negoziazione di strumenti finanziari illiquidi (OMBUDSMAN decisioni del 30.7.2014, del 19.10.2015 e del 27.1.2016, infra, sez. III).


Il giudice estensore della sentenza che qui si commenta ha risolto la questione definendo la Comunicazione Consob come un «documento privo di diretta portata precettiva ma esplicativo degli obblighi di legge». Tale impostazione tanto stringata quanto convincente risulta sostenuta dalla maggioranza della dottrina (Dialto; Rescigno, infra, sez. IV).


In altre parole, la Comunicazione emanata dalla Consob altro non è che “un’interpretazione conforme” a disposizioni nazionali ed europee di primo e secondo livello. Se quindi non ha valore strettamente precettivo, non per questo se ne deve escludere la concreta vincolatività per gli intermediari. Tanto più se si considera la circostanza secondo cui la fase di elaborazione di questo documento sia stata caratterizzata da pubbliche consultazioni con gli operatori del mercato, destinatari dello stesso, che hanno determinato due ordini di conseguenze: in primo luogo, la partecipazione dei privati ha conferito legittimazione alle regole prodotte e, in secondo luogo, ha attribuito alle stesse un contenuto tecnico qualitativamente elevato e condiviso dagli operatori del mercato. Inoltre si deve sottolineare che l’Associazione Bancaria Italiana (di cui la Banca convenuta fa parte), l’AssoSIM e la Federcasse hanno approvato le «Linee guida interassociative per l’applicazione delle misure Consob di livello 3 in tema di prodotti finanziari illiquidi», validate dalla Consob il 5 agosto 2009, definendole un «safe harbour in termini di certezza applicativa da parte degli intermediari». Dalla qualificazione della Comunicazione alla stregua di un’interpretazione delle regole già vigenti inerenti gli obblighi informativi che incombono sugli intermediari finanziari, attenta dottrina ha fatto derivare l’applicabilità della stessa anche a fattispecie precedenti alla sua emanazione (Rescigno, infra, sez. IV).


Poste queste necessarie premesse sul panorama normativo in cui si colloca la decisione in commento è opportuno verificare se le azioni non quotate in un mercato regolamentato emesse da una banca popolare e dalla stessa collocate siano o meno uno strumento finanziario illiquido.


L’investimento in un prodotto finanziario si realizza mediante un contratto di investimento, caratterizzato sotto il profilo dell’oggetto e della causa. L’oggetto è costituito da prestazioni di natura pecuniaria, non corrispettive, interrotte dal rischio correlato alla causa del contratto. La causa, quale funzione economico individuale, si atteggia a «scopo di investimento», cioè ad aspettativa di un profitto derivante da una somma di denaro, senza l’apporto di prestazioni da parte dell’investitore diverse da quella di dare una somma di denaro. Tale contratto non è tipizzato dal legislatore riflettendo la natura aperta e atecnica della nozione di prodotto finanziario di cui all’art. 1, comma 1, lett. u) del TUF. Le ragioni di una nozione tanto elastica quanto atipica sono da ricercarsi nell’esigenza di tutela degli investitori, consentendo di ricondurre nell’alveo della protezione accordata dal TUF anche forme atipiche, innominate o altrimenti nominabili di prodotti finanziari. (Fratini, Gasparri, infra, sez. IV).


Non vi è alcun dubbio che le azioni non quotate costituiscano un prodotto finanziario. Ciò che invece è stato oggetto di indagine nella sentenza del giudice veronese è se queste fossero anche illiquide. La Consob definisce nella Comunicazione del 2009 i prodotti illiquidi quali «quelli che determinano per l’investitore ostacoli o limitazioni allo smobilizzo entro un lasso di tempo ragionevole, a condizioni di prezzo significative, ossia tali da riflettere, direttamente o indirettamente, una pluralità di interessi in acquisto e in vendita».


Una condizione di liquidità potrebbe essere assicurata anche dallo stesso intermediario, pur in presenza di prodotti non quotati in mercati regolamentati, ma esclusivamente nel caso di impegno dello stesso al riacquisto secondo criteri e meccanismi prefissati.


È da rilevarsi che, nel mercato primario, l’emittente di prodotti illiquidi riveste spesso anche il ruolo di intermediario occupandosi direttamente della distribuzione dei medesimi. Inoltre si rivela spesso una certa debolezza del mercato secondario e, con particolare riferimento alle azioni non quotate e alle obbligazioni bancarie, i circuiti di negoziazione sono costituiti pressoché unicamente dalle proposte effettuate dallo stesso intermediario emittente.


Le azioni della banca convenuta erano senz’altro un prodotto illiquido. Infatti pur sussistendo a detta della Banca “un vivace mercato si scambio delle stesse (azioni n.d.r.), che avveniva in tempi rapidi direttamente tra i soci della banca e/o con la banca”, ciò non risulta sufficiente a rendere il prodotto liquido. Infatti il meccanismo di circolazione dei titoli era rimasto non regolamentato, specie con riguardo alle condizioni di vendita, ed alle modalità di determinazione del prezzo di vendita, oltre al fatto che la Banca non aveva alcun obbligo di riacquisto. Sussistendo intrinseche limitazioni fattuali agli scambi e non essendovi alcuna certezza sul prezzo di realizzo, il Tribunale ha giustamente rilevato tutti gli elementi caratterizzanti l’illiquidità dei titoli.


La detta coincidenza sullo stesso soggetto del ruolo di intermediario con quello di emittente determina una “connaturato” conflitto di interessi specie sotto il profilo della valutazione di adeguatezza/appropriatezza della transazione. Si aggiunga che il cliente tende a percepire tali prodotti (in particolare le azioni e le obbligazioni bancarie) come a basso rischio finanziario e a “capitale garantito”, sottostimando l’eventuale componente aleatoria (Fratini, Gasparri, infra, sez. IV).


Per le citate esigenze di tutela dell’investitore, la Comunicazione Consob ha previsto: specifiche misure di disclosure, sia nella fase di proposizione delle operazioni di investimento (trasparenza ex ante), sia nella fase successiva al compimento dell’operazione da parte della clientela (trasparenza ex post); presidi di correttezza circa la determinazione del fair value del prodotto e del pricing; stringenti regole circa la valutazione dell’adeguatezza e della appropriatezza del prodotto al cliente.


Le modalità di distribuzione di strumenti finanziari, ai sensi del Regolamento Consob n. 16190 del 2007 (Reg. Intermediari) sono essenzialmente tre: la valutazione di adeguatezza, la valutazione di appropriatezza o la c.d. execution only.


L’execution only, cioè la mera esecuzione delle disposizioni impartite dall’investitore senza alcuna valutazione, per le azioni non quotate di cui si discute, è esclusa dagli art. 43 e 44 del Reg. Intermediari (operando solo per nel caso di azioni quotate).


La valutazione di adeguatezza è caratterizzata da un esame specifico oltre che dell’esperienza e della conoscenza dei prodotti finanziari più simili a quelli oggetto dell’acquisto, anche degli obiettivi di investimento, dell’holding period e della situazione reddituale e patrimoniale.


La valutazione di appropriatezza tiene in conto del grado di conoscenza finanziaria e di esperienza del cliente al fine di verificare l’effettiva capacità di quest’ultimo di comprendere gli specifici rischi connessi allo strumento finanziario acquistato.


Il dovere dell’intermediario di adoperare il più analitico regime di adeguatezza, rispetto a quello della sola appropriatezza, sorge nell’ipotesi di consulenza o di gestione di portafoglio. La valutazione di appropriatezza viene effettuata in tutte le altre ipotesi.


Il tema inerente la distinzione tra adeguatezza e appropriatezza è fondamentale poiché nel caso di operazione inadeguata sorge l’obbligo di astensione (c.d. effetto bloccante), nel caso di operazione inappropriata, invece, sorge solo l’obbligo per la banca di avvisare il cliente di tale circostanza e lo stesso, anche in forma standardizzata, potrà acconsentire comunque ad effettuarla.


Il Tribunale veronese, con un giudizio tranchant, ritiene non applicabile al caso di specie la disciplina in punto di adeguatezza delle operazioni di investimento. A ben vedere la motivazione avrebbe dovuto approfondire alcune questioni decisive. Infatti, in molti casi, le Banche/intermediarie hanno previsto, a partire dal 2007, l’estensione del servizio di consulenza a tutti i propri clienti retail. Pertanto, tali istituti di credito, tanto nella negoziazione, quanto nel collocamento dei titoli, sono tenuti ad effettuare la valutazione di adeguatezza (Cerniglia, infra, sez. IV).


Inoltre, dall’esame testimoniale del funzionario della banca convenuta, si sarebbe dovuto verificare se in concreto vi fosse stata o meno consulenza. Infatti, è possibile che vi sia stata una consulenza di fatto. Un’attività di consulenza, ancorché incidentale e non formale, farebbe scattare l’obbligo per la banca di eseguire la valutazione di adeguatezza.


Con l’attuazione della direttiva MiFID è stata conservata la previsione della forma scritta a pena di nullità relativa per i contratti stipulati con investitori non professionali aventi ad oggetto la prestazione di qualsiasi servizio o attività di investimento e di qualsiasi servizio accessorio, escluso soltanto il contratto relativo alla prestazione del servizio di consulenza in materia di investimenti (artt. 39 della direttiva L2 e 23, 1° co., t.u.f.). Il contratto di consulenza è, dunque, un contratto a forma libera (Parrella, infra, sez. IV). La ragione di tale libertà della forma, in un quadro che tende viceversa verso un neoformalismo di protezione, non può essere considerata alla stregua di una svista del legislatore, anche perché prima del recepimento della MIFID era prevista la forma scritta. Si deve ritenere che il non prevedere requisiti di forma sia funzionale alla tutela dell’investitore che potrà provare con ogni mezzo di aver ricevuto una consulenza di fatto generatrice degli obblighi anzidetti per l’intermediario.


Tale regime è governato dall’obbligo specifico di astensione in caso di operazione considerata inadeguata, non superabile neanche tramite il consenso — informato — scritto del cliente all’esecuzione dell’operazione inadeguata.


L’adeguatezza è, infatti, una fattispecie complessa, che si compone di doveri di astensione e di doveri informativi. Si fonda cioè sulla bidirezionalità delle informazioni che si estende fino al punto di obbligare l’intermediario a ricevere informazioni dal cliente al fine di effettuare una valutazione di adeguatezza dei prodotti rispetto alle esigenze dell’investitore (Trib. Bologna, 2.3.2009, n. 116 e Cass. 25.06.2008, n. 17340, infra, sez. III).


Come anticipato, il giudice ha ritenuto applicabile al caso in esame il solo regime di appropriatezza.


Opportunamente il giudice indaga in concreto circa l’esperienza e la conoscenza dello specifico prodotto acquistato dall’attore. Dal testo del questionario MIFID, prodotto dalla convenuta, risulta che l’attore conoscesse le azioni (termine che evidentemente si riferisce alle azioni di società quotate) e che invece non conoscesse una serie di altri prodotti, tra cui i derivati OTC. Il Tribunale ritiene ragionevolmente che «le azioni illiquide, come quelle per cui è causa, sono più assimilabili ai derivati OTC, con riguardo al tipo di mercato in cui vengono trattate e alle conseguenze, anche in termini di rischiosità dell’investimento, che ciò comporta, piuttosto che alle azioni».


I derivati Over The Counter sono dei derivati che vengono acquistati e venduti al di fuori di mercati regolamentati, quindi la regolamentazione e il prezzo sono demandati alla contrattazione tra le parti non essendoci quotazioni ufficiali.


Il giudice conclude quindi che non vi fu una verifica da parte dell’intermediario della conoscenza ed esperienza del cliente di comprendere gli specifici profili di rischio connessi ai titoli acquistati.



III. I precedenti



1. La forma del contratto quadro di intermediazione finanziaria. Sulla mancanza della firma della sottoscrizione del cliente si vedano Cass. 22.3.2013 n. 7283, in Foro it., Banca dati; Cass. 22.12.2011, n. 28432, in Foro it., 2012, I, 1490. Sull’insufficienza della sottoscrizione del cliente del documento sui rischi generali in mancanza della sottoscrizione del contratto quadro si veda Cass. 19.2.2014, n. 3889, in De Jure, Banca dati.


Sulla produzione in giudizio del contratto quadro da parte della banca si veda Cass. 03.01.2017, n. 36, in De Jure, Banca dati; Cass. 24.05.2016, n. 10711, in De Jure, Banca dati.


Sulla inidoneità di provare l’esistenza di un contratto che richiede la forma scritta ad substantiam con altri documenti si veda Cass. 07.06.2011, n. 12297, in De Jure, Banca dati.


I caratteri necessari al fine del soddisfacimento del requisito formale del contratto sono esplicati in Cass. 07.06.1966, n. 1495, in Foro pad., 1967, 249. Per una ricostruzione del dibattito giurisprudenziale sulla prova della conclusione per iscritto di un contratto quadro di investimento si veda Cass. 27.04.2016, n. 8395, in De Jure, Banche dati.


L’importante ordinanza di remissione alle Sezioni Unite circa gli effetti della mancata sottoscrizione dell’intermediario del contratto quadro che costituisce la summa del secondo orientamento citato - quello volto a valorizzare lo scopo della nullità di protezione - è Cass. ord. 10.04.2017, n. 10447, in Dirittobancario.it, con nota di commento di Cusumano.


Per la giurisprudenza di merito che ha preceduto l’impostazione dell’ordinanza di remissione n. 10447/2017 si vedano App. Venezia, 15.06.2016, n. 1377, in Foro pad., 2016, 4, 423, con nota di Ticozzi; App. Venezia, 28.07.2015, n. 1904, in De Jure, Banca dati; Trib. Torino, 20.01.2016, n. 316, in De Jure, Banca dati; Trib. Milano 13.11.2013, n. 14268, in Dirittobancario.it).


Per la giurisprudenza di legittimità maggioritaria che ritiene necessaria anche la sottoscrizione dell’intermediario ai fini della validità del contratto quadro si vedano Cass. 14.03.2017, n. 6559, in Dirittobancario.it; Cass. 24.03.2016, n. 5919, in ilCaso.it; Cass. 11.04.2016, n. 7068, in De Jure, Banca dati; Cass. 27.04.2016, n. 8395, in De Jure; Cass. 27.04.2016, n. 8396, in De Jure, Banca Dati; Cass. 19.05.2016, n. 10331, in De Jure; Cass. 03.01.2017, n. 36 in Dirittobancario.it.


Per la giurisprudenza di merito che segue la tesi della necessaria sottoscrizione dell’intermediario si vedano App. Bologna 13.01.2017, n. 89 inedita; Trib. Rimini, ord. 02.02.2012, in Persona e Danno (a cura di Cendon), con nota di Franchi.


La sentenza sulle conseguenze del mancato assolvimento degli obblighi informativi per gli intermediari Cass., sez. un., 19.12.2007, n. 26725, in Giust. civ., 2008, 12, 2775.


Per la rilevabilità delle nullità di protezione si veda Corte Giust. UE, 04.06.2009, causa C-243-08, in Foro it., 2009, IV, 489 ss, con nota di Palmieri.



2. Gli obblighi informativi sugli strumenti finanziari illiquidi. L’unica sentenza rinvenuta che fa esplicito riferimento al Rapporto Lamfalussy definendolo «il punto di riferimento fondamentale» del metodo di regolazione nel campo finanziario è Tar Roma 19.05.2010, n. 12276, in www.iusexplorer.it/dejure; è rinvenibile poi un riferimento a tale rapporto in Cons. Stato, Sezione consultiva per gli atti normativi, 14.02.2005, parere n. 11603/04, in www.iusexplorer.it/dejure. Le decisioni dell’OMBUDSMAN - Giurì Bancario che fanno applicazione della Comunicazione Consob 9019104 del 2 marzo 2009 sono Collegio del 30.7.2014, Collegio del 19.10.2015, Collegio del 27.01.2013, rinvenibili su Repertorio sui servizi di investimento, www.conciliatorebancario.it.


Per il funzionamento della valutazione di adeguatezza si vedano Trib. Bologna, 2.3.2009, n 116, Corr. giur., 2009, 1255, con nota di Sangiovanni, Informazione sull’adeguatezza dell’operazione finanziaria e dovere di astenersi; Cass. 25.06.2008, n. 17340, in Foro it., 2009, I, 188 ss., con nota di Scoditti.



IV. La dottrina


1. La forma del contratto quadro di intermediazione finanziaria. Sulla rassegna dei diversi orientamenti giurisprudenziali circa la mancanza di firma dell’intermediario si veda Lorenzi, Obbligo di forma scritta del contratto ai sensi dell’art. 23 del TUF: per il Tribunale di Milano è sufficiente la sottoscrizione del solo investitore, Nota a Trib. Milano 13.10.2013 n 14268, in Giustizia civile.com, 2014.


Sugli effetti della produzione in giudizio del contratto quadro da parte della banca si veda Bertolini, Problemi di forma e sanzioni di nullità nella disciplina a tutela dell’investitore. Perequazione informativa o opportunismo rimediale?, in Resp. civ. e prev., 2010, 11, 2336. Sul termine entro cui la proposta va accettata si veda su tutti Roppo, Il contratto, Giuffrè, 2001, 229.


Sulla prova della contratto che richiede la forma scritta ad substantiam si veda Galgano, Trattato di diritto civile, 2014, Cedam, 285. Sui contratti che richiedono la forma scritta ad probationem si veda Sacco, La forma, in Trattato di diritto privato, 10, 1998, UTET, 219; Patti, Prova documentale, in Commentario del cod civ. Scialoja e Branca, 1996, Zanichelli, 7.


Per la dottrina che si esprime nel senso dell’esigenza che le determinazioni contrattuali risultino direttamente dall’atto formale si veda Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, 2012, Jovene, 208; Bianca, Il contratto, in Diritto Civile, 2000, Giuffrè, 282; Bianca, op. ult. cit., 288.


Circa l’ordinanza di remissione alle Sezioni Unite sulla necessita della firma dell’intermediario si veda Panzarini, Un’ordinanza passatista (sulla forma dei contratti del comparto finanziario), in Riv. dir. banc., dirittobancario.it, 12, 2017.


Sulle caratteristiche delle nullità di protezione si veda Gentili, Nullità di protezione e ruolo del notaio, in Riv. notar., 2010, 2, 289 ss.



2. Gli obblighi informativi sugli strumenti finanziari illiquidi. Per un’analisi del funzionamento del c.d. Rapporto Lamfulassy si vedano Moloney, The Lamfulassy Legislative Model: a new Era for the EC Securities and Investment Services Regime, in ICLQ, 2003, diffusamente; Mogg, Regulating Financial Services in Europe: a New Approach, in Fordham Int’l Law Jour., 2002, XXVI, 58 ss; Maromegliani, La Direttiva comunitaria sugli abusi de mercato e il nuovo sistema sanzionatorio, in Dir. comm. Internaz., 2006, II, 273; Il rapporto Lamfalussy sulla procedura di armonizzazione del diritto dei mercati finanziari approvato dal Parlamento Europeo, in Riv. soc., 2002, I, 371.


Per il valore della regolamentazione di terzo livello si veda Dialti, Principali differenze e somiglianze tra standards e norme aventi valore di legge nel settore della regolamentazione finanziaria, in Dir. comm. int., 2005, III-IV, 535 e ss.


Sul valore specifico della Comunicazione Consob 9019104 si vedano Rescigno, Il prodotto è tossico: tenere lontano dalla portata dei bambini, in Analisi giur. econ., 2009, I, 148; Cerniglia, Le azioni delle banche non quotate: problematiche e possibili soluzioni, in dirittobancario.it, 2008.


Sulla definizione di prodotto finanziario oltre che di illiquidità si veda Fratini, Gasparri, Il Testo Unico della Finanza, UTET Giuridica, 2012, 20.


Sulla tutela accordata agli investitori tramite la valutazione della adeguatezza, della appropriatezza e della mera esecuzione o ricezione di ordini si veda Brescia, Morra, Adeguatezza, appropriatezza e mera esecuzione, in L’attuazione della MiFID in Italia, D’Apice (a cura di), Bologna, 2010, 517, nonché Santocchi, Le valutazioni di adeguatezza e di appropriatezza nei rapporti contrattuali fra intermediario e cliente, in I contratti del mercato finanziario, Gabrielli Lener (a cura di), in Trattato dei contratti, diretto da Rescigno, Gabrielli, UTET, 2011, 281.


Sul contratto di consulenza, con particolare riferimento alla forma si veda Parrella, Il contratto di consulenza finanziaria, in I contratti del mercato finanziario, Gabrielli-Lener (a cura di), in Trattato dei contratti, diretto da Rescigno, Gabrielli, UTET, 2010, 1021.


Sulle problematiche inerenti le azioni delle banche non quotate con riferimento alle modalità in concreto di negoziazione e collocamento delle stesse si veda Cernaglia, ult. op. cit..

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